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BOWLBY E LA SUA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO

Di Federica

L’attaccamento può essere definito come un insieme di comportamenti che contribuiscono alla formazione di un legame fra due persone.

John Bowlby fu uno psicanalista inglese che mise l’accento sull’importanza dell’attaccamento durante il primo anno di vita: all’interno della sua teoria espose l’idea che sia il neonato sia il caregiver siano biologicamente predisposti a formare degli attaccamenti.

Il bambino nasce dotato di una predisposizione biologica che lo porta a cercare di costituire un legame privilegiato verso la persona che si prende cura di lui (il caregiver).

Nel genitore, al contrario, opera una predisposizione biologica complementare a volersi prendere cura e proteggere il neonato.

Le fasi dell’attacamento

Il bisogno di attaccamento è primario e da esso dipende la vita del bambino. Per Bowlby l’attaccamento si sviluppa in una serie di fasi:

Dalla nascita a 2 mesi: il bambino non è ancora rivolto verso una figura precisa (il sorriso del neonato può essere indirizzato anche a estranei o fratelli).
Dai 2 mesi ai 7 mesi: i segnali sono orientati su una specifica persona, colui che si è preso maggiormente cura di lui. Il bambino in questa fase impara a differenziare le persone famigliari da quelle che sono comparse, ancora non vi è la fase di attaccamento.
Dai 7 mesi ai 24 mesi: iniziano attaccamenti specifici, questo è dato dal fatto che il bambino inizia a camminare, è più autonomo e quindi cerca il contatto con le persone che preferisce.
Dai 24 mesi in poi: l’attaccamento diventa stabile e la diade madre-bambino coopera per raggiungere alcuni obiettivi. Il legame è reciproco. Dalla quarta fase in poi il bambino inizia a capire le esigenze della mamma, lui l’aspetta se la mamma è a lavoro, accetta dei brevi periodi di separazione, capisce che la mamma non può essere sempre a disposizione quando lui la chiama.

A partire dalla quarta fase, secondo Bowlby, il bambino si costruisce delle rappresentazioni interiorizzate dell’interazione con il caregiver principale. In generale sono rappresentazioni di sé stessi e delle persone con le quali si è stabilito un legame significativo.

Rappresentazioni interiorizzate

Più nel dettaglio sono strutture mentali affettivo-cognitive, costituite da rappresentazioni organizzate in base alle aspettative di risposta delle figure significative dell’infanzia, che comprendono:

  • ricordi autobiografici;
  • credenze;
  • attitudini;
  • motivazioni.

In quanto strutture mentali derivano da esperienze reali e sono “operativi” nel senso che comprendono strategie comportamentali (azioni) per rispondere alle aspettative, risolvere problemi, far fronte a disagi e situazioni sociali.

Se il bambino ha sperimentato un caregiver attento, responsivo, protettivo che ha fornito regolarmente adeguate cure e attenzioni, svilupperà un modello dell’altro come affidabile, presente, accogliente, sensibile ai suoi bisogni, disponibile alle sue richieste ed efficace nel farvi fronte.

Specularmente, svilupperà un modello di sé stesso come persona degna e meritevole d’amore e di attenzioni, e una rappresentazione della relazione come affettuosa, calda e protettiva (sicurezza).

Al contrario, bambini che hanno vissuto relazioni con caregiver incostanti, non adeguati nel loro accudimento, o addirittura assenti o maltrattanti, svilupperanno un modello dell’altro come inaffidabile, imprevedibile, incostante, sfuggente e, specularmente, un modello di sé stessi come soggetti non degni delle cure, dell’amore e delle attenzioni altrui.

I MOI, quindi, permettono al bambino di crearsi delle aspettative sul comportamento del caregiver e influenzano anche le sue reazioni alle altre persone e, in generale, nelle altre relazioni.

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